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Villette è l’ultimo romanzo di Charlotte Brontë, l’unico che
non si concluda con il matrimonio della protagonista, l’unico
che abbia come titolo un luogo. Viene scritto lentamente, nella
fatica che segue la morte: in otto mesi Charlotte aveva perso
il fratello e le sorelle; il 24 settembre 1848 era morto Branwell,
il 19 dicembre Emily, il 28 maggio Anne. Tornata nella canonica
di Haworth con il vecchio padre è – come annota la sua
biografa, Elisabeth Gaskell1 – «una creatura resa insensibile a
qualsiasi meschinità dalla grande severità della morte», una sopravvissuta
«dominata da un’agonia che deve essere sopportata,
che non si può evitare».
Villette nasce da questo intreccio di lotta e di rassegnazione,
di debolezza e di coraggio. Per la prima volta Charlotte lascia
che la solitudine si richiuda sulla protagonista: a Villette, immaginaria
città del Continente in cui si adombra Bruxelles,
Lucy Snowe troverà lavoro e serenità economica, ma non sposerà
l’uomo che ama. Su questa prova si spezza quell’egocentrismo
rimproverato da Virginia Woolf2 ai romanzi di Charlotte:
il desiderio perde la sua angustia e si trasforma in ricordo, il
dolore personale assume la coralità della tragedia.